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10.10.2011
Il tossico parla in greco antico
Di Umberto Galimberti

l’uso ormai così diffuso della droga non dipende tanto da un disagio “esistenziale” quanto “culturale”.

Il consumo della droga è in continuo aumento. I danni, anche se non immediatamente avvertiti, sono spaventosi. Una voluttà nichilista sembra pervadere la nostra società, soprattutto nella sua fascia giovanile, senza che adeguati rimedi appaiano disponibili e soprattutto efficaci. Siccome sono persuaso che l’uso ormai così diffuso della droga non dipenda tanto da un disagio “esistenziale” quanto “culturale”, in questa serie di articoli vorrei affrontare il problema della droga con gli strumenti che la nostra cultura, anche se appare ormai esangue, sembra ancora in grado di offrire. Incominciamo col dire che, non solo nel caso della droga, ma in generale, “il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile”. Questa formula, che ogni tossicomane conosce, riproduce esattamente quanto la filosofia dell’Occidente ha pensato intorno al piacere e al desiderio. Già Platone, indagando la natura del desiderio, ne ha colto l’essenza nell’“insaziabilità”, perché il desiderio è “mancanza”, è “vuoto”, da pensare non come uno stato stabile contrario al pieno, ma come uno stato insaturabile che si svuota man mano che cerchiamo di riempirlo, come la “giara bucata”, per stare alle immagini di Platone, o come il “piviere”che è quell’uccello che mangia e nello stesso tempo evacua. Iniettarsi eroina si dice in italiano “bucarsi”. Il corpo si fa “abisso” che etimologicamente significa “senza fondo”. Allo stesso modo in francese “essere alcolizzato” si dice “bere come un buco (boire comme un trou)”. Tossici e alcolizzati parlano in greco antico e descrivono la loro incapacità di “contenere” con immagini platoniche. La tossicomania sembra infatti incarnare alla lettera la teoria platonica del desiderio che fa della mancanza non il motore della ricerca della felicità, ma quella “belva dispotica e indomabile che spinge ad aggrapparsi ad essa senza poter più tendere ad altro”. Sotto questa forma il desiderio ci fa provare un dolore insopportabile eppure irresistibile, e il piacere che ne segue è cessazione di questa pena, anestesia, piacere negativo, come dopo la prima dose, quando quella successiva non porta voluttà, ma evita la caduta nella sofferenza, perchè fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere di cui non ci si prende più cura. “Cura” in tedesco si dice Sorge, e Freud, dopo aver fatto uso per diverso tempo di cocaina, chiama la droga Sorgenbrecher, ciò che consente di “scacciare i pensieri”, di non “prendersi cura” e, come lui stesso scrive, “il più antico rimedio contro il disagio della civiltà”. Così dicendo, Freud, dopo aver indicato con tanta precisione la malattia chiamata “uomo”, include il ricorso alle droghe in una prospettiva culturale, e in proposito scrive: “Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto ben preciso nella loro economia libidica. Con l’aiuto dello scacciapensieri (Sorgenbrecher) sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori. E’noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi ammontari di energia che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della sorte umana”. Come per Aristotele, anche per Freud, infatti, il piacere è il primo principio della vita psichica, nonché il movente più forte dell’azione umana, ma sia Aristotele sia Freud distinguono il piacere “immediato” dell’infanzia, dal piacere adulto che nasce dal “differimento” del godimento, spostato su oggetti compatibili con il mondo, con gli altri e soprattutto con l’autoconservazione. Qui cade la differenza instaurata da Freud tra il principio di piacere (infantile) e principio di realtà (adulto) che non è negazione del piacere, ma suo “differimento”, perché non tralascia la cura di uomini e cose, ma cerca il piacere attraverso questa cura, fattore essenziale di ogni vicenda umana. Quindi congedo dalla “non-curanza”, per abituarci a “prenderci cura” dei nostri piaceri, non nella forma “an-estetica” della soddisfazione immediata come fanno i bambini, ma in quella “estetica” nell’accezione greca dell’“aisthesis” o sensazione, che percorre la gamma che dal “sensibile” giunge al “bello”. Il tratto “anestetico” non è tipico solo delle droghe, ma anche degli psicofarmaci per il loro valore anestetizzante e quindi “nichilistico”. In questo modo la differenza tra droghe e farmaci sfuma, perché la neurofarmacologia ci invita a pensare che esiste una corrispondenza qualitativa tra i composti chimici che assumiamo e quelli che fisiologicamente agiscono sulle cellule cerebrali per regolare le nostre gioie e i nostri dolori. Così la neurofarmacologia razionalizza i comportamenti tossicomani e, a sua insaputa, contribuisce alla loro sdrammatizzazione, perché riconosce l’intenzione ragionevole del gesto medico o autoterapeutico che consiste nel modificare la sensibilità del corpo. In questo modo, come scrive lo psichiatra Edward Khantzian: “Il tossicomane non appare più come un immaturo che regredisce e si comporta in modo irrazionale, bensì come un adulto che individua un disagio, sceglie un rimedio specifico, si cura e si limita ad anticipare il medico con un prodotto il cui unico difetto è di essere inadeguato in quanto mal dosato”. Dello stesso avviso è il neuropsichiatria Peter Kramer per il quale: “Il paziente anedonico, così chiamato per la sua incapacità di provar piacere, che assume il prozac e il cocainomane che assume la droga tentano entrambi di compensare la loro mancanza di capacità edoniche. La finalità del loro gesto è identica”. Entrambi, infatti, vengono a compensare un’incapacità di felicità, non attraverso un coinvolgimento nel mondo, ma attraverso un godimento appetitivo e consumatorio della vita, che Platone rubrica tra le esperienze “miste e impure”, caratterizzate cioè dall’insaziabilità del desiderio e dalla negatività del piacere. La “macchina del nulla” che avvia questo circolo vizioso inabissa il tempo in un’ossessione volta alla ricerca del prodotto che promette la liberazione da ogni “cura”, innescando quella meccanica della ripetizione, che Freud chiama “coazione a ripetere”, dove l’insaziabilità della pulsione si scontra con l’inadeguatezza dell’oggetto e quindi con l’impossibilità del godimento. A questo punto il desiderio che, come ci ricorda Platone, è fatto di “mancanza” e di “nulla”, chiede che si aumenti la dose, per cui in un certo senso la tossicomania riprodurrebbe, come nessun’altra cosa, il perfetto funzionamento del desiderio, che non cerca il piacere nel mondo, ma l’estinzione rapida e immediata di quella “mancanza” che è la sua struttura costitutiva. Nessuno infatti desidera ciò che ha, ma solo ciò che non ha. Il nulla è l’anima del desiderio che, nella sua versione anestetica, rende l’appetito irresistibile e il piacere insoddisfacente. Sulla natura “insaziabile” del desiderio, i tossicomani sono d’accordo. Lo sanno anche se non hanno letto Platone. E’la droga ad averglielo insegnato. E a proprie spese hanno imparato che “ci si droga per essere assuefatti” come scrive William Burroughs ne La scimmia nella schiena, e che darsi alla droga è un “full time job, un lavoro a tempo pieno” come dice Mark Renton in Trainspotting. Ma siccome il tempo è la nostra vita, e la nostra vita siamo noi, la tossicomania, come rimedio al dolore, invoca per sé un altro rimedio. Platone contro l’insaziabilità del desiderio consigliava il pensiero, Freud invitava a piegarsi al principio di realtà, nel senso che per godere bisogna fare uno sforzo. E allora contro la voluttà degli “scacciapensieri” o Sorgenbrecher, come li chiama Freud, che sono tanto le droghe quanto i farmaci così agognati dal nostro cervello che sembra ce la metta tutta per diventare cronicamente desiderante, l’antropologa Giulia Sissa consiglia: “Mettiamoci a sedurre uomini, conquistare donne, guadagnare denaro, scrivere un libro. Passiamo attraverso le persone e le cose. Dopotutto - ed è appunto il "dopo" che conta - si gode di più”. Un modo per dire: “non ripudiamo il nostro desiderio”, ma per evitare che, dall’abisso della negatività che lo costituisce, il desiderio si faccia insaziabile e cerchi nella droga o nel farmaco quel piacere negativo che consiste nel riempire la “giara bucata”, facciamolo passare attraverso le persone e le cose. Il piacere, infatti, va assecondato, non negato. Si tratta solo di indicargli la via come l’auriga di cui parla Platone la indica al cavallo indomito. E questo va raccomandato soprattutto alle campagne pubblicitarie che, con le loro minacce e le loro raccomandazioni tautologiche del tipo “just say no (dì di no e basta)”, mancano di efficacia perché, trascurando la natura del desiderio e la qualità del piacere, dicono cose in cui sono del tutto trascurati gli incanti della vita. E ognuno sa che, senza incanti, la vita non ha più voglia di vivere.

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