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26/09/2020
Da: L'ospite inquietante il nichilismo e i giovani
Di: Umberto Galimberti

Il consumo della droga è in continuo aumento. I danni, anche se non immediatamente avvertiti, sono spaventosi.

1. Il nichilismo sotteso alla droga
Il consumo della droga è in continuo aumento. I danni, anche se non immediatamente avvertiti, sono spaventosi. Una voluttà nichilista sembra pervadere la nostra società, soprattutto nella sua fascia giovanile, senza che adeguati rimedi appaiano disponibili e soprattutto efficaci. Siccome sono persuaso che l’uso ormai così diffuso della droga non dipende tanto da un disagio esistenziale quanto culturale, sarà bene affrontare il problema della droga con gli strumenti che la nostra cultura, anche se appare ormai esangue, sembra ancora in grado di offrire. Come scrive l’antropologa Giulia Sissa, a cui queste pagine si rifanno, non solo nel caso della droga, ma in genere, il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile. Questa formula, che ogni tossicomane conosce, riproduce esattamente quanto la filosofia dell’Occidente, a partire da Platone, ha pensato intorno al piacere e al desiderio, per cui, se la filosofia vuole raccogliere la sfida, può mettere la sua ricchezza analitica a disposizione della comprensione di quel fenomeno inquietante e sempre più vasto che è l’uso e l’abuso della droga. Nessuno, infatti, come Platone, ha mai indagato la natura del desiderio, cogliendone l’essenza nell’insaziabilità, nell’insaziabilità, perché il desiderio è mancanza, è vuoto, da pensare non come uno stato stabile contrario al pieno, ma come uno stato insaturabile che si svuota man mano che cerchiamo di riempirlo, come la “giara bucata”, per stare alle immagini di Platone, o come il “piviere” che è quell’uccello che mangia e nel contempo evacua (Sissa, p. 10). “Iniettarsi eroina si dice, in italiano, bucarsi. [...] Il corpo si fa abisso – che significa, etimologicamente, ‘senza fondo’”; allo stesso modo “essere alcolizzato si dice, in francese, ‘boire comme un trou’, bere come un buco” (ibid.). Tossici e alcolizzati parlano in greco antico e descrivono la loro incapacità di “contenere” con immagini platoniche. La tossicomania sembra infatti incarnare alla lettera la teoria platonica del desiderio che fa della mancanza non il motore della ricerca della felicità, ma quella “belva dispotica e indomabile”, per stare a un’altra immagine platonica, che spinge ad aggrapparsi a essa senza poter più tendere ad altro. “È sotto questa forma che il desiderio si fa provare: un dolore insopportabile eppure irresistibile” (ivi, p. 9), e il piacere che ne segue è cessazione di questo dolore, anestesia, piacere negativo, come dopo la prima dose, quando quella successiva non dà piacere ma impedisce di ripiombare nel dolore. Torna qui in mente la dialettica hegeliana servo-signore,nonché la metafora heideggeriana del pendio, pendio, in tedesco Hang, da cui hangen, essere appeso, e anhangen, dipendere.6 Torna il concetto lacaniano di manque, la mancanza come molla del desiderio,e la teoria freudiana del piacere narcotico come piacere affascinante perché doppiamente negativo: fa cessare il dolore fisico e fa da anestetico al male di vivere di cui non ci si prende più cura. “Cura” in tedesco si dice Sorge, e Freud, dopo aver fatto uso per diverso tempo di cocaina, chiama la droga Sorgenbrecher, ciò che consente di “scacciare i pensieri”, di non “prendersi cura” e, come lui stesso scrive, “il primissimo rimedio contro il disagio della civiltà” (Sissa, p. 12). Grande lettore di Goethe, Freud aveva meditato sul Faust, che è poi quel “dramma del desiderio che si conclude con il trionfo sarcastico di Sorge, la Cura in persona, ospite inamovibile di ogni casa umana” (ibid.). E riflettendo sull’uso delle droghe in una prospettiva esistenziale, Freud scrive: Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto ben preciso nella loro economia libidica. Con l’aiuto dello scacciapensieri (Sorgenbrecher) sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori. È noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi ammontari di energia che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della sorte umana. Come per Aristotele, anche per Freud “il piacere è il principio primo della vita psichica [...] il movente più forte dell’azione umana”, ma sia Aristotele11 sia Freud distinguono “il piacere immediato, incurante, non negoziato dell’infanzia” dal piacere adulto che ha imparato a “differire il godimento, spostandolo su oggetti compatibili con il mondo, con gli altri, con l’autoconservazione” (ivi, pp. 12-13). Qui cade la differenza instaurata da Freud tra il principio di piacere (infantile) e il principio di realtà (adulto) che non è negazione del piacere, ma suo differimento, perché non tralascia la cura di uomini e cose, ma cerca il piacere attraverso questa cura, fattore essenziale di ogni vicenda umana. Sulla traccia dell’etica aristotelica, Freud ipotizza che il nostro cervello sia fatto per godere dell’inerzia e della noncuranza, assecondando le quali non ci si cura di nient’altro se non di quell’oggetto che pensiamo possa dispensarci da ogni cura. Tale è l’oggetto tossico, nevrotico, onirico, in presenza del quale la pulsione si fa insistente, implacabile e coatta, dove il desiderio, come vuole il nichilismo denunciato da Platone e da Aristotele, è sempre vivo perché insoddisfatto, e insoddisfatto perché il piacere che cerca è negativo, è l’uscire dalla pena dell’insaziabilità del desiderio. Per spezzare il circolo vizioso occorre, sia per Platone e Aristotele sia per Freud, passare attraverso la realtà che ci obbliga a congedarci dalla non-curanza, per abituarci a prenderci cura dei nostri piaceri, non nella forma an-estetica della soddisfazione immediata come fanno i bambini, ma in quella estetica nell’accezione greca dell’aísthesis o sensazione, che percorre la gamma che dal “sensibile” giunge al “bello”. Ma il tratto “anestetico” non è tipico solo delle droghe, ma anche dei farmaci che, per il loro valore anestetizzante e quindi nichilistico, hanno un successo da far invidia al sistema moderno delle merci, dal momento che nessun bene di consumo può competere con loro in termini di soddisfazione e di piacere. Facendo infatti sognare come mai è capitato a qualsiasi responsabile delle vendite, la differenza tra droghe e farmaci sfuma, perché “la neurofarmacologia ci invita a pensare che esiste un’omogeneità qualitativa tra i composti chimici che assorbiamo e quelli che agiscono nelle cellule cerebrali per regolare le nostre gioie e i nostri dolori” (ivi, p. 153). In questo modo, prosegue Sissa, la neurofarmacologia razionalizza i comportamenti tossicomani e, a sua insaputa, “contribuisce alla [loro] sdrammatizzazione, riconoscendo l’intenzione ragionevole del gesto medico o autoterapeutico che consiste nel modificare la sensibilità del corpo. Il tossicomane non appare più come un immaturo che regredisce e si comporta in modo irrazionale, bensì come un adulto che individua un disagio, sceglie un rimedio specifico, si cura e si limita ad anticipare il medico con un prodotto il cui solo difetto è di essere inadeguato in quanto mal dosato” (ibid.). Queste considerazioni, che Sissa riprende dallo psichiatra E. Khantzian, vengono ulteriormente rafforzate da Peter Kramer per il quale “‘il paziente anedonico [così chiamato per la sua incapacità di provar piacere] sotto prozac e il cocainomane tentano entrambi di compensare la loro mancanza di capacità edoniche’. La finalità del loro gesto è identica” (ivi, p. 154). Infatti, se è vero che il prozac non crea dipendenza e non procura l’eccitazione della cocaina né l’appagamento dell’eroina, al pari di queste viene a compensare un’incapacità di felicità, non attraverso un coinvolgimento nel mondo, ma attraverso un godimento appetitivo e consumatorio della vita, che Platone rubrica tra le esperienze “miste e impure”, caratterizzate cioè dall’insaziabilità del desiderio e dalla negatività del piacere. Qui filosofia e psicoanalisi convengono nel dirci che, quando la voluttà tende all’anestesia – e tutte le droghe, anche quelle euforizzanti che i nostri giovani consumano ogni sabato sera nelle discoteche, sono paradossalmente anestetiche perché anestetizzano anestetizzano dalla “cura” del mondo –, l’appetito si fa divorante, ma il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivela di volta in volta sempre più insoddisfacente. La macchina del nulla che avvia questo circolo vizioso inabissa il tempo in un’ossessione volta alla ricerca del prodotto che promette la liberazione da ogni “cura”, innescando quella meccanica della ripetizione che Freud chiama “coazione a ripetere”, dove l’insaziabilità della pulsione si scontra con l’inadeguatezza dell’oggetto e quindi con l’impossibilità del godimento. A questo punto il desiderio che, come ci ricorda Platone, è fatto di “mancanza” e di “nulla”, chiede che si aumenti la dose, per cui in un certo senso la tossicomania riprodurrebbe, come nessun’altra cosa, il perfetto funzionamento del desiderio, che non cerca il piacere nel mondo, ma l’estinzione rapida e immediata di quella “mancanza” che è la sua struttura costitutiva. Nessuno infatti desidera ciò che ha, ma solo ciò che non ha. Il nulla è l’anima del desiderio che, nella sua versione anestetica, rende l’appetito irresistibile e il piacere insoddisfacente. “Sulla natura insaziabile del loro appetito, i tossicomani sono d’accordo. Lo sanno perché è la droga ad averglielo insegnato”; e a proprie spese hanno imparato che “ci si droga per essere assuefatti, scrive William Burroughs [e che] darsi all’eroina è un ‘full time job’, un lavoro a tempo pieno, afferma Mark Renton in Trainspotting” (Sissa, p. 158). Ma siccome il tempo è la nostra vita, e la nostra vita siamo noi, la tossicomania come rimedio al dolore invoca per sé un altro rimedio. Contro l’insaziabilità del desiderio Platone consigliava il pensiero, Freud invitava a piegarsi al principio di realtà, nel senso che per godere bisogna fare uno sforzo. E allora contro la voluttà degli “scacciadolori” o Sorgenbrecher, come li chiama Freud, che sono tanto le droghe quanto i farmaci così agognati dal nostro cervello che ce la mette tutta per diventare cronicamente desiderante e in astinenza, Giulia Sissa consiglia: “Mettiamoci allora a sedurre uomini, a conquistare donne, a guadagnar danaro, a scrivere un libro... Passiamo attraverso le persone e le cose. [...] Dopotutto – ed è appunto il dopo che conta – si gode di più (pp. 158-159). Un modo per dire: “Non ripudiamo il nostro desiderio”, ma per evitare che, dall’abisso della negatività che lo costituisce, il desiderio si faccia insaziabile e cerchi nella droga o nel farmaco quel piacere negativo che consiste nel riempire la “giara bucata”, facciamolo passare attraverso le persone e le cose. Il piacere, infatti, va assecondato, non negato. Si tratta solo di indicargli la via, come l’auriga di cui parla Platone la indica al cavallo indomito. E questo va raccomandato, conclude Sissa, soprattutto alle campagne pubblicitarie che “con le loro minacce [...] o i loro consigli tautologici – just say no, ‘di’ di no e basta’ – [...] mancano di efficacia” perché trascurando la natura del desiderio e la qualità del piacere “si dimenticano troppo spesso gli incanti della vita” (p. 159). E ognuno sa che, senza incanti, la vita non ha più voglia di vivere.



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