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19.04.2009
intervista ad educatori nelle comunità terapeutiche
conoscere i pensieri di chi lavora nelle comunità è una opportunità per capire il senso di questo lavoro.Inoltre è utile per decifrare Il mondo culturale in cui avviene lo scambio delle relazione tra persone in un luogo di cura.

FEDERICO, 30 anni, educatore

Ho una laurea vecchio ordinamento in scienze dell’educazione.

D: Come mai hai deciso di fare questo lavoro? Come mai ha deciso di diventare educatore? Un po’il percorso che ti ha portato a questa scelta.
R: Una domanda non facile. Ho scelto di fare l’educatore prima di iscrivermi alla scuola una decina d’anni fa’. Dopo ragioneria non ero molto soddisfatto del mio percorso di studi, ho fatto due anni di filosofia, però non sono stato molto soddisfatto del percorso. Casualmente ho iniziato a lavorare, non avevo pensato nulla di preciso, fare l’operaio piuttosto che altro, e ho iniziato a fare l’A.S.A., ho lavorato come precario negli ultimi due reparti del manicomio che sono stati chiusi nei mesi in cui ci ho lavorato io. Sono stati sei mesi molto interessanti e molto belli, ma mancava qualcosa: mancava un po’ forse la fase intenzionale, insomma quel che avevo era un compito di pulizia, il mantenimento dell’ordine e scarso rapporto con l’utente…

D: Quindi anche un po’ di voler fare qualcosa di più che non ti era permesso…
R: Sì. Per cui anche l’intervento di cose di filosofia che mi erano piaciute, se tu pensi… o anche delle cose personali che mi portavo dietro… l’attenzione all’altro… il darsi, in particolare mi hanno portato a provare a tradurre in pratica e a fare l’educatore: questa è tutta, un po’, la scelta. Diciamo che ho cercato di fare, per fare meglio. Ho saputo che c’era un corso all’ENAIP e quello era l’ulti-mo anno che avrebbero fatto quella scuola lì: siccome non sono capace di passare i concorsi, c’era un concorso per entrare e io sono rimasto fuori. Sono rimasto un anno in giro a bighellonare, conti-nuavo a pensare che non l’avrei più rifatto, sono tornato a fare l’operaio e stupidate varie, poi ho iniziato scienze dell’educazione, contemporaneamente ho iniziato a lavorare in una comunità per handicappati, a Cenate, e poi il rapporto tra il pubblico e la società civile, poi la crisi grossa è arri-vata qualche tempo fa’, ma…
D: Sono curiosa…
R: E’ perché, se tu guardi, di educatori dopo i trent’anni ce ne sono pochi, vicino ai trent’anni si en-tra un po’ in crisi… perché è un lavoro stressante, sarà che si percepisce poco, sarà che non sei tute-lato né a livello sindacale, né a livello sociale, per il lavoro dell’educatore, sarà che in giro c’è an-che molta inadeguatezza, anche questo spinge a fare l’operaio, oppure a fare il concorso per il dotto-rato… e ci ritroviamo a fare l’educatore.

D: E come mai l’educatore proprio in ambito socio-sanitario?
R: No, questa qua è una distinzione che proprio non sta nella mia testa… io preferirei che mi chie-dessi perché con i tossicodipendenti. Cioè socio-sanitario o ambientale, così, non sta insomma, cioè anch’io li ho vissuti lì, ma non stava nella mia testa e credo che nel mondo del lavoro questa distin-zione non abbia per me alcun tipo di senso.

D: E come mai proprio con i tossicodipendenti?
R: Coi tossicodipendenti perché ho lavorato cinque anni in stazione con Don Resmini e prima anco-ra ho avuto altre esperienze con i minori e poi per esempio esperienze con gli handicappati, espe-rienze con il campo nomadi di via Rovelli, comunque così, come bagaglio tecnico… Quando uno si chiede dove si trova meglio, io mi trovo un po’ più con i tossici piuttosto che con i minori: non an-drei mai a lavorare in un C.A.G. o in un informagiovani, non avrei forse la capacità lavorare con gli handicappati, non ho abbastanza pazienza… diciamo che in ambito proprio più professionale, il problema di questo lavoro è che si cambia spesso e ci si guadagna anche poco…

D: Tu hai detto di avere poca pazienza, ma con i tossicodipendenti non serve molta pazienza?
R: Sì serve anche con i tossici, no, era più sotto forma di battuta, serve pazienza anche con loro. So-litamente con tutti si dovrebbe riuscire ad avere i giusti tempi, riuscire ad aspettare e attendere i mo-menti opportuni e comprendere l’evoluzione. Più che altro tocca direttamente quegli splendidi… quello che ci vuole nell’incontro, la pazienza, cioè proprio caratterialmente.

D: Quindi il motivo per cui tu hai scelto questa professione è sia qualcosa di personale che qualcosa che ti è venuto dall’esterno: tutti i condizionamenti che mi dicevi prima, le varie e-sperienze, bene o male ti hanno portato a questo…
R: Sì

D: Però tu comunque volevi fare qualcosa di questo tipo, indipendentemente dal fatto di aver fatto ragioneria
R: Meno male che ho fatto ragioneria, perché ho capito che quel mondo lì non faceva per me e che dovevo cercare qualcos’altro. Però è stata una contingenza da una parte, come è stata una contin-genza l’università, cioè non era la cosa che volevo fare “da grande”, una decisione che coincide con la maturità, non di spirito, un po’, cioè… non avevo la grossa idea di quello che volevo fare: è stata più un po’ di esperienza, un po’ di voglia di prendere, di fare, di cambiare un po’ il mondo… lì però ci ha fatto molto la contingenza, la casualità, se non avessi trovato quel lavoro nella comunità credo che non avrei neanche avuto lo stimolo per iscrivermi a scienze dell’educazione.

D: Quindi anche un po’ di incontri che hai fatto ti hanno indirizzato a questo piuttosto che ad andare avanti “a far di conto”?
R: Sì, infatti.

D: Rispetto a quello che tu fai in questo ambito, in questo luogo, come si inserisce l’educatore, che ruolo ha, che funzioni ha, che azioni deve compiere?
R: Premetto che la mia esperienza è iniziata da un mese e qualche settimana, è abbastanza breve. Si tratta di progetti educativi, sicuramente, di progetti terapeutici per quello che appunto riguarda an-che il sociale, sono cose di questo genere. Più che altro si traduce anche nelle azioni che vanno da colloqui, alla somministrazione di test già predisposti, per lavorare con la figura di riferimento, per cui ogni educatore ha i suoi due o tre ragazzi da seguire continuamente nel quotidiano. Quindi col-loqui, somministrazione di test già strutturati e seguire un po’ il momento dell’arrivo e dell’inseri-mento, perché sono persone che entrano perché le hanno trovate in giro ubriache, piuttosto che mandate dal SERT… tutte queste cose pratiche che bisogna fare… Il senso di questo lavoro è un po’ ricomporre le fratture, dare un senso, cioè quello che è un discorso di esperienza di strada. La sostanza è innanzitutto la risposta a un problema, una risposta a delle fratture, a delle vicissitudini dolorose, a dei sentimenti di inadeguatezza e a una complessità che non sono riusciti a gestire, che non si gestisce più di tanto. Insomma, rinominare e risignificare queste fratture e provare a dargli anche la possibilità di ricomporle.

D: Quindi la funzione è un po’ quella di seguire il paziente, l’utente, in questo percorso, aiu-tandolo a ricomporre un po’ i pezzi della sua vita.
R: Sì, mantenere i contatti con la famiglia, quando c’è, aiutare il percorso, come moderatore. C’è anche la gestione del quotidiano, tra le cose che si devono fare, quindi seguire un po’ i vari lavori, la campana è il segnale per iniziare i lavori del pomeriggio e così, devi controllare il loro percorso da fare.

D: E quindi alla fine l’educatore come deve porsi, come deve operare? In che modo agisce l’e-ducatore in questa comunità?
R: Credo che una persona per venire a lavorare qua debba essere uno abbastanza quadrato, cioè, non un ventenne che viene a sperimentarsi qua, per il rispetto verso chi c’è qua, i degenti, che di tutto hanno bisogno eccetto che di uno che gli butti addosso i propri problemi. Per cui una persona abba-stanza quadrata, che abbia fatto questa scelta, comunque che ha una sua vita regolare, che è riuscito a tirare le somme.

D: Quindi, per dire, un tirocinante della triennale ce lo vedi poco?
R: Il tirocinante è diverso, cioè non è tanto il ruolo, ma è la persona. Cioè se viene qua una persona che si fa ingolosire da queste questioni di coca, alcool, come vivi, lo sballo, non ha una sufficiente distanza per riuscire a stare con le storie di queste persone qui che sono mostruose. Poi non interro-gano soltanto loro, ma interrogano anche te: per dire, il rapporto con i genitori, che è un rapporto che devi volere tu, cioè siamo uguali tutti, vuol’essere, per chi l’ha avuto, l’essere marito, essere in dialogo con qualcuno che si interessa della tua storia: questo non vuol dire che lo devi schiacciare, anzi, forse per questo è più legato ti fa andare avanti, e quando arrivi qua che hai poca esperienza, conosci poco le logiche, secondo me non riesci a entrare bene nel ruolo dell’educatore. Comunque una buona persona che è qua deve stare attenta a non essere troppo paziente su certe cose. Bisogna ascoltare la loro esperienza, e questo ti riempie di nero: quelli che sono qua ti pungolano. Cioè di-pende proprio dalle persone.

D: Quindi, più che guardare a come uno deve operare, avrebbe più senso per te che io ti chie-dessi come deve essere la persona che lavora qua: quindi una persona quadrata, una persona che non si lascia…
R: Sì, è difficile, c’è chi ha più esperienza, io sono fortunato che ho avuto anche un po’ di esperien-za, ma ho cominciato anch’io, per cui da qualche parte bisogna partire. È difficile, comunque, il la-voro del tirocinante è quello che ti crea meno problemi, cioè, non devi gestire il quotidiano, non de-vi gestire i colloqui educativi non sei chiamato perché hai delle responsabilità nel fare qualcosa piuttosto che qualcos’altro, non devi dire dei no, ad esempio. E comunque lavorare in una comunità è dura.

D: Per quanto riguarda te personalmente: come la tua formazione e il tuo sapere ti sono utili in questo posto? Come li usi? Hai dovuto ridefinire degli assunti che tu avevi, che ti derivava-no dalla tua formazione, piuttosto che dal tuo essere, dalle tue esperienze precedenti? Quindi, quello che tu sai e hai studiato quanto ti è utile ed è legato a questo?
R: Il sapere dell’università è estremamente utile, è quello che riesce a dare degli sprazzi di luce alla realtà. Cioè, non è il sapere che potrebbe essere un po’ meccanico, omologico, nomotetico, che trovi sul manuale e che studi da qualche altra parte: questo ha detto così, quest’altro ha detto cosà... Per fortuna noi non abbiamo avuto questo, ma ci hanno invece insegnato a significare la realtà attraver-so soprattutto un pensiero che si basasse sull’uomo, sulla complessità, cioè non a padroneggiare la complessità, ma a pensare la complessità. Era una ricerca di stimoli, credo anche come persona, ed è successo anche con Lizzola: non è che dica che il suo sapere è onnipotente, anzi bisogna cercare di riconoscere che è fragile e dall’altra parte quello che si deve assolutamente rintracciare nell’uni-versità è che non è in grado di fare gli educatori. Cioè, forma delle persone, degli studiosi dell’uma-no, però non è in grado di fare educatori e questo lo dico proprio avendo fatto l’educatore per tanti anni. Non dà quegli strumenti…ma visto che prima parlavamo di tirocinio, a me non è andato più o meno giù tutto il mio percorso, perché è stato un altro momento in cui ho avuto dei problemi giusti, cioè di chiedersi che cos’è l’uomo: cioè, perché ho fatto questo lavoro? Perché mi chiedevo un po’ che cos’è l’uomo. È giusto che questo sapere che ci hanno dato all’università ha cercato questo pun-to e ci ha dato tanto per poter parlare. Ma a parte il sapere bisogna dare anche degli strumenti prati-ci: bisogna orientare di più verso la ricerca di strumenti pratici, bisogna discutere del tirocinio, pro-porre anche, secondo me, dei corsi di laurea più ad hoc. Il problema è che c’è troppa dipendenza dal proprio sapere: cioè io non so quanti studenti sanno che cosa sia un SERT, come funziona un SERT, come funziona un’ASL, cos’è un assistente sociale, quali sono i suoi compiti, perché non so-no assistenti sociali, ma educatori… cose di questo genere. L’università è quello, non risponde co-munque totalmente alla pratica, non bastano solo i seminari che si fanno così ogni tanto estempora-neamente, ma serve qualcosa di più strutturato. Preferirei un corso di laurea più dedicato a quello che è il mondo del lavoro che si andrà a fare, che ti permetta e ti dia anche dei saperi omologici, te-cnici, un po’ odiosi, però utili, in modo che quando inizi a lavorare qualcosa sai già.

D: Quindi lo trovi molto utile dal lato della formazione personale, però un po’ slegato rispetto all’ambito in cui poi uno va ad operare?
R: Sì, manca un po’ il nesso tra teoria e pratica.

D: Invece tu rispetto alle esigenze di questo lavoro, rispetto alle esigenza dei pazienti, come ti poni, come ti vivi rispetto a questo ruolo che hai assunto?
R: Cioè in questa struttura?
Sì. Come percepisci l’utenza e come ti poni rispetto a questa. Poi questa occupazione ha delle sue esigenze, nel senso che lavorare in questo posto ti dirà pur qualcosa che devi fare e tu ti devi comportare in un certo modo piuttosto che in un altro… ti crea difficoltà?
R: Teniamo conto che sono nuovo e alcune cose non mi sono ben chiare: i ragazzi che ci sono qua sono molto fragili, con dietro una storia personale molto complicata. Penso che qualsiasi progetto e-ducativo debba essere innervato costantemente da una relazione calda e accogliente. Cioè qua non solo devi essere amico, fratello, genitore, ma devi riuscire ad accogliere, riuscire a dare quelle rela-zioni calde di “Io tengo a te”, insomma, “Mi tocchi”, in qualche maniera tu cambi anche la tua sto-ria e il tuo esistere. Penso che sia un po’ questo, tant’è vero che uno scoppia nel momento in cui questa cosa non riesce più a sopportarla, ti cambia troppo o senti che non ti cambia più. Loro sono dei bambinoni, cioè sono adulti, ma mi commuovo, mi commuove pensare a delle situazioni che ho in mente: persone grandi con segni sulle braccia dovuti alla loro vita, fragili, con una psiche un po’ scompensata, si commuovono quando vedono la mamma, commuoversi perché c’è qua un fratel-lo… cioè sono magari persone di quarant’anni che mi commuovono un sacco…, rispetto alla solita immagine del tossico, solitario, che non vuole nessuno nella propria vita. D’altra parte per lavorare qua bisogna proprio essere delle persone quadrate, perché è assolutamente faticoso: bisogna essere molto fermi, ma è difficile dire dei “no”, non sai cosa può succedere.

D: Quindi tu questa professione la vivi un po’ come…
R: Come un’opportunità di vita, uno stato di grazia, proprio perché mi permette di stare vicino a li-vello cristiano, semplicemente, di maturare, di concludere una cosa faticosa e quando sei più sereno è tutto diverso. D’altra parte le cose brutte di questa professione sono il fatto che c’è la professione, ma lo sanno in pochi, non abbiamo il sindacato, non abbiamo il riconoscimento in busta paga e per questo è dura, per questo si smette. Questo è il problema delle cooperative, nel senso che ci sono gli educatori di “classe A”, quelli che lavorano nel pubblico, che hanno avuto la fortuna di lavorare per un comune, per un SERT e sono tutelati e tranquilli, noi no, non riesci a prenderti una casa, e arriva-to a trent’anni vorresti fare le tue cose, pensare alla famiglia e tante cose per me non riescono pro-prio a stare insieme. Questo svilimento continuo… pensavo che fossero delle cose geniali, un modo così, tranquillo, di portare avanti il lavoro, in realtà si sono rivelate l’anello debole… questo restan-do comunque un bellissimo lavoro, ma stressante, sicuramente faticoso…

D: Quindi, se non ho capito male, sei soddisfatto da un lato e deluso dall’altro, nel senso che ti aspettavi un qualcosa che ti desse un po’ più di tutele, che funzionasse magari in modo diver-so…
R: No, beh, quando ho iniziato un po’ lo sapevo che andava a finire cosi, ma quando hai vent’anni non ci pensi a queste cose qua, è più pieno di ideali, questa qua è una scelta che ho fatto come un posto ideale, ma quando arrivi a trent’anni si comincia anche a maturare delle scelte e ti rendi conto che non hai le risorse, scopri che non sei tutelato, che non hai un sindacato, ti rendi conto che co-munque vivi sotto la soglia della povertà, perché prendi 900 euro al mese, un operaio ne prende 1.100… ti rendi conto che c’è qualcosa che non va, che i miei genitori sono tutti e due pensionati e prendono molto, ma molto più di me, e non si può non parlare di questa cosa qua. Cioè non è solo un discorso di soldi, ma di tutele. È un peccato perché è un lavoro a cui uno da tutto e non si ha tu-tela, cioè il diritto alla salute di questi qua passa un po’ in cavalleria.

D: Per concludere: positività, criticità, cosa credi che sia più da valorizzare, cosa trovi proble-matico? Un po’ così in generale.
R: Finché non saremo più riconosciuti e più tutelati si continuerà a perdere. Io vivo adesso questa cosa qua. Rispetto poi ad altre situazioni o altre cose trovo uno scollamento tra lo studio e il mondo del lavoro… io sono della generazione che ha scelto questo lavoro qua perché ci credeva. Poi… so-no di Bergamo, ho fatto l’università qua e volente o nolente ho fatto l’educatore.

D: Aspetti positivi?
R: Beh, quando si sta bene e sei un attimo tranquillo è il lavoro più bello del mondo. Ogni tanto mi fa piacere pensarla così, come uno stato di grazia, e quando va bene fa piacere pensare “Vaffanculo, ci sono dentro anch’io”, ma purtroppo non si campa solo di queste cose qua.

A cura di maurizio mattioni marchetti

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