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07.05.2009
intervista a Giorgia responsabile di comunità terapeutica
continua il nostro viaggio attraverso ciò che pensano gli operatori delle comunità terapeutiche per capire un mondo a volte troppo in ombra.
La narrazione è lo strumento che ci permette di condividere realtà diverse un pertugio verso la conoscenza.

rosa

Intervista a Giorgia responsabile di una comunità terapeutica

D: Come mai hai deciso di intraprendere questi studi e di lavorare poi in questo ambito?

R: Un po’ credo per predisposizione, per interesse personale che ho un po’ da ragazzina, diciamo che inizialmente ero un po’ orientata su un discorso di medicina, una dimensione di cura, che poi non ho fatto per una serie di quesiti che mi sono posta, nel senso che magari empatizzo un po’ trop-po con le sofferenze altrui. Quindi ho preso la strada della psicologia grazie ad un periodo dopo gli studi della maturità, abbastanza convinta.
Gli ambiti di lavoro: io ho lavorato fondamentalmente in due ambiti, che sono la psichiatria e que-sto contesto (diciamo che sono le esperienze più significative) della tossicodipendenza, che è stato un po’ il mio primo lavoro. Subito dopo la laurea ho iniziato a confrontarmi e a lavorare nei contesti residenziali, grazie alla conoscenza che ho fatto durante il periodo del tirocinio, proprio del Mauri-zio, che dirigeva una struttura a San Gallo e cercava anche del personale da inserire in una struttura residenziale femminile a Lodi, per cui io mi sono un po’ misurata con la coscienza, e ho iniziato co-sì il mio primo percorso. Ho lavorato per due anni e mezzo circa come responsabile di questa strut-tura piccola (parliamo di 10 anni fa’): dopo questi due anni e mezzo mi sono detta che non avrei mai più lavorato nel settore della residenzialità, perché questo lavoro è molto logorante e devi im-maginare che un po’ perché sei giovane, un po’ le prime esperienze… è un lavoro logorante sul pia-no emotivo perché comunque in fondo tu sei uno strumento terapeutico principale per cui è stato molto impegnativo, molto pesante, anche se molto valorizzante: mi ha insegnato molte cose: l’azio-ne, l’osservazione, anche proprio elementi di clinica. Dopo questo periodo io invece ho preso un’altra strada, ho lavorato più nell’ambito della psichiatria, ma sono rimasta legata a quest’ambien-te, nel senso che ho fatto un lavoro di consulenza, più da psicologa che da educatrice, se vuoi, che invece è un po’ un aspetto per il quale io penso di avere un interesse personale. Proprio sono ritor-nata da qualche hanno nel contesto della residenzialità, ci lavoro da tre anni qua dentro, dopo aver fatto altre esperienze di lavori più ambulatoriali, ho lavorato anche in A.S.L., ma dove è entrata in campo una effettiva relazione con le persone eccetera, è sempre stato un po’ un elemento di critici-tà. Quindi in fondo penso un po’ per l’interesse primo nel relazionarmi con gli altri, nell’osservare, nel valutare… anche un po’ nella mia formazione psicologica, che è anche un po’ diversa da quella dell’educatore.

D: Quindi l’ambito socio-sanitario è venuto perché…

R: C’è anche un ampio processo, devo dire, che io ho lavorato anche in intervento sociale, però in realtà un ambito che mi piace molto di più e che può contemporaneamente integrare la mia forma-zione psicologica con gli aspetti più educativi, perché effettivamente qua dentro io gioco un ruolo educativo che non di psicologo proprio nell’accezione, diciamo così, professionale del termine. Poi è un lavoro che a me piace, per cui non ho mali, anzi, è ancora una parte di me, per cui non mi vedo ancora come quella psicologa dietro la scrivania che fa i suoi colloqui punto e basta, magari in quel-la dimensione… qui c’è più di coinvolgimento proprio nella relazione, più a tutto tondo, più su tanti aspetti che sono anche caratteriali…

D: Quindi questa professione, come psicologa, adesso proprio come educatrice, è venuta per rispondere a un’esigenza personale, indipendentemente dagli incontri o dalle esperienze…

R: Ma sai, ho fatto degli incontri che mi hanno aperto questa strada, penso che ci sarei arrivata co-munque, credo, molto probabilmente, però è vero che ho fatto degli incontri importanti, non so, con Maurizio è stato un incontro importante per me perché mi ha un po’ aperto a questo mondo, in cui io poi sono rimasta, qualche volta da protagonista, qualche volta in forme un po’ diverse, però che mi è piaciuto e al quale sono tornata, devo dire, a parte le mie crisi del tipo “Non ci tornerò più” ec-cetera, in realtà con piacere notevole. Quindi sicuramente l’andrei a ricercare comunque, perché ci sono legata comunque, o sono caratteristiche che ho che mi piace mettere in campo nel rapporto con i pazienti, nell’ottica della cura, che porta degli elementi a cui io sono un po’ attaccata.

D: E relativamente a questo ambito qua come si inserisce, in questo caso, uno psicologo, che ruolo ha, che funzioni ha?

R: Mah, il mio ruolo, come ti dicevo, ha delle competenze psicologiche, quindi più l’aspetto forma-tivo, se vuoi, io lo utilizzo sicuramente, ma ritarandolo un po’ sugli aspetti più di educazione. Credo che qua hai più un ruolo non tanto della psicologa che sta dietro una scrivania, quanto di… innanzi-tutto io ho un ruolo di coordinamento di un gruppo di lavoro, che è poi la mia prima funzionalità, mi occupo della definizione dei progetti terapeutici, ma più in generale del progetto della comunità, quindi un po’ la filosofia del trattamento, i principi un po’ metodologici che un po’ vengono da… quindi ho un po’ più questa funzione, che è primaria, e una funzione un po’ di contenimento, sono un po’ l’elemento che collega tutti gli operatori e gli interventi che vengono un po’ affidati agli altri colleghi. Sicuramente è un ruolo in cui vengono messi in campo aspetti che non sono semplicemen-te, appunto come dicevo, lo psicologo, lo psicoterapeuta, ma sono aspetti anche organizzativi, sono aspetti di relazione con il gruppo di lavoro, di relazione con i pazienti che invece sono qua, però molti anche aspetti proprio metodologici, di impostazione del servizio, che ovviamente derivano da chi c’è e che poi detta un po’ le linee operative. Questo è un po’ il mio ruolo.

D: Quindi le funzioni, abbiamo detto un po’ di gestione…

R: Sì, di coordinamento, un coordinamento primario, poi nel coordinamento ci sta anche, ovvia-mente, quel collegamento rispetto alle progettualità dei singoli pazienti, o utenti, chiamiamoli così, che sono nel nostro centro.

D: E le azioni principali che…

R: Che svolgo per il mio ruolo? Mah, sono un po’ quelle che ti ho descritto: l’azione come il gruppo di lavoro, che va ad indicare i compiti che devono essere eseguiti, dal modificare delle azioni in cor-so rispetto anche al tipo di progetti, a definire delle linee organizzative generali, oltre a occuparmi, sul piano anche sia professionale, ma un po’ personale, della salute emotiva anche un po’ delle per-sone che lavorano con me, e non soltanto quella dei pazienti, insomma, perché devo un po’ occu-parmi del benessere dell’équipe, dei miei colleghi e quindi svolgo un po’ questa funzione di control-lo e di gestione appunto della nostra salute, perché è uno dei miei compiti.

D: Quindi come si deve operare in questo tipo di strutture, a cosa si è chiamati?

R: Ti dico, quando viene qui una persona che vuole lavorare con noi io gli dico sempre che uno de-ve avere un po’ in testa, innanzitutto, il sapersi collocare in un contesto come questo, che vuol dire sapere in che posto uno va, quindi in un contesto residenziale, una comunità, con delle persone pro-blematiche, che si portano dietro le loro storie. Quindi uno deve sapersi anche misurare con la rela-zione con gli altri, anzi, deve avere ovviamente spiccate doti relazionali, non può essere uno che ha difficoltà ad agire con le persone, perché ovviamente non è il tuo lavoro, deve avere anche però una discreta conoscenza di sé, perché insomma uno deve essere un po’ consapevole di come è, di quali aspetti possono essere messi in campo della propria personalità, del proprio modo di essere e quali aspetti è meglio invece magari monitorare di più. Ti faccio un esempio: nei contesti di vita come il nostro, vita e lavoro, la conflittualità, la dimensione anche molto, come donna, magari anche di ma-scolinità e di autorevolezza cha tu devi comunque avere, possono essere aspetti di personalità che io non ho magari come disposizioni naturali, ma magri devo aver acquisito per esercitare le mie fun-zioni anche educative in maniera adeguata. Per cui per esempio questo è un elemento di grosso stress per molti operatori, per noi che lavoriamo in questo settore, perché c’è sempre un po’ la ne-cessità di riuscire a stabilire in maniera adeguata delle relazioni coi pazienti, anche su degli aspetti che magari, telo dico da femmina, da donna che lavora in questo contesto, molto spesso la capacità di farsi rispettare, di mediare i contrasti con una certa autorevolezza, che devi comunque avere, ti viene in parte dal lavoro, in parte te lo devi un po’ conquistare, sono degli aspetti importanti che credo che le donne in particolare hanno di più rispetto ai maschi, che ce l’anno di loro da giocarsi, ma sicuramente più per aspetti interni, insomma. Quindi non soltanto, se vuoi, quegli aspetti femmi-nili, anche magari di accudimento, di cura, che noi magari siamo anche più capaci di avere e di e-sprimere, ma anche per esempio un discorso più di gestione dell’aggressività, gestione di un certo tipo di linguaggio che a noi serve per poter comunicare con loro in maniera diretta, tenendo conto che lavori con pazienti e persone attive e questa è una variabile importante per noi, non è un ele-mento secondario. Credo che sia questo che io dico sempre un po’ a tutte operatrici anche giovani che magari arrivano eccetera, di sapersi collocare: non sei la ragazzina o la donna che viene qua, non è che uno viene e che fa sfoggio della propria femminilità senza sapere che può essere contro-producente, altrimenti non avrai delle relazioni che siano anche professionali.

D: Ma quindi, la domanda che mi veniva subito dopo era: l’essere donna ha mai creato diffi-coltà all’inizio?

R: Ma sicuramente. Io ti devo dire che, non so, rispetto ai primi tempi ho acquisito anche certe for-me linguistiche, certi aspetti probabilmente di maggiore anche asprezza, che molto spesso io dico magari anche a mio marito che non sono più capace di comportarmi da donna, da femmina fuori perché dico un po’ di parolacce, proprio perché a volte devi impattare in maniera abbastanza diretta per cui a volte acquisisci degli aspetti personologici diversi, e che in realtà sono un elemento di co-municazione importante. Sicuramente un po’ ce li devi avere, un po’ li impari, perché non è che ce li hai tout court, ed è un banco di prova notevole: molte ragazze che non sono riuscite a lavorare in un contesto come il nostro, non ce l’hanno fatta proprio perché non riuscivano magari a conquistarsi questo aspetto di rispetto, di autorità, di autorevolezza, che è importante e che va esercitato nella funzione anche di controllo che noi abbiamo nell’educazione delle persone che ci sono qua e che però bisogna essere capaci. E non deve separarlo dal nostro lavoro, secondo me è troppo pesante.

D: Personalmente, come in questo ambito, in questa struttura utilizzi il tuo sapere? È utile? È slegato? Hai dovuto ripensare qualcosa?

R: Mah, sai, io penso un po’ questo: credo che un po’ il percorso formativo che uno fa, poi se lo a-datta a come è come persona, del tipo, rispetto ai disturbi psicologici sicuramente comunque se fos-si stata in un contesto fuori da qua avrei comunque riadattato certi aspetti accademici, se vuoi, che qua ho imparato, a come uno è. Per cuocerti aspetti da psicologa che magari appartengono di più a delle mie colleghe, a me non appartengono, e credo che è un po’ la variabile del contesto, magari individuare il tipo di situazioni più anche informali, toccanti, che mi piacciono anche di più, rispetto alle situazioni classiche di setting più professionale eccetera. Per cui sicuramente qui c’è un po’ un integrare rispetto a come uno è a come uno poi matura nel corso del tempo una filosofia dell’inter-vento, che è quello che io penso possa essere utile rispetto alle esperienze e quant’altro. Quindi c’è un po’ un integrare, un rimaneggiare quello che uno fa e che comunque viene messo i campo, e che ovviamente è un po’ imprescindibile da quello che sei tu, ecco, e che però va un po’ a costruire la tua idea, nell’ambiente di lavoro, di che cosa può essere la cura, quali sono gli elementi centrali e uno poi li adatta a come è e quindi mette in campo le conoscenze che ha.

Cioè è un punto di partenza dal quale e dentro al quale poi si cerca di risolvere o comunque di cercare di fare…
Sì.

D: C’è qualcosa che magari invece ha richiesto ripensamenti o ridefinizioni?

R: Ma sì, tante cose, cioè questo è un lavoro che richiede ripensamenti quasi costanti su tante cose, su tutto, cioè…qui ti riferisci a ripensamenti sul piano personale, cioè sul fatto che faccia questo la-voro oppure più…
Mah, l’idea era un po’ più, sempre partendo dalla formazione, dal sapere che uno ha acquisi-to durante gli studi, e poi in questa precisa attività, appunto il vedere che comunque è utile, è legato, ma è un…

In realtà per fare questo lavoro molto spesso tutto quello che tu hai studiato può anche non servire, nel senso che la teoria e un po’ anche l’aspetto pratico, il fatto cioè che tu vivi una dimensione come la comunità, che comunque è una dimensione di vita, qui ci vanno delle ore, è un lavoro particolare che uno probabilmente si sceglie, non ci arriva un po’ per caso, non ci è caduto dentro. Le teorie, un po’ le informazioni che uno ha, sì, possono essere strumenti, ma è sempre un po’ la tua persona che deve trovare degli elementi positivi per se, per starci dentro, diciamo così. Quindi io penso che mol-to è l’esperienza lontana da quello che magari ci viene insegnato, senza nulla togliere, e poi magari integri anche le informazioni che hai, le rimetti in gioco in riferimento a delle esperienze che fai e gli dai anche il tuo significato, lo riadatti eccetera, però sicuramente, ti dico, quando ho iniziato que-sto lavoro avrei potuto sapere tutto, ma non mi avrebbe aiutato minimamente a gestire questo tipo di attività. E poi provi, fai sulla tua pelle, valuti, quindi ti correggi: insomma è fonte per quello di ri-pensamenti anche continui perché tu comunque devi reimparare, nella relazione devi sempre un po’ impararti: essendo la relazione l’elemento centrale in questo lavoro e gli elementi della relazione sei tu e un gruppo di persone, l’altro, i tuoi colleghi, insomma tutto un mondo così, continuamente devi porre accorgimenti, nel senso che puoi andare avanti, puoi tornare indietro, puoi modificare lo stile, devi cambiare comunicazione, quindi è questo un po’ secondo me la ricchezza di questo lavoro, ma anche un po’ la fatica di questo lavoro. Se invece poi uno un po’ si focalizza o si fissa, meglio, cre-do che un po’ diventa pericoloso e non utile poi agli altri. Quindi credo che si possa conservare un po’, però dopo uno deve cambiare.

D: Rispetto alle esigenze di questo tipo di lavoro, come ti poni? Cioè, tutte le cose che mi hai detto prima che sei chiamata a fare in questo posto, come le vivi?

R: Le vivo, finora, anche se faticose, con molta passione per quello che faccio e allora ti dico che sfrutto questo come elemento per decidere quando le situazioni non vanno più bene e allora io pen-so, alle volte, che avendo fatto questo percorso per un tot di anni, se arrivavo rilassata, non era più un percorso utile per me, perché poi le turbe emozionali piuttosto che una serie di altri aspetti diven-tavano troppo pesanti rispetto a quello che era la gestione del lavoro. Quindi io credo che comun-que, fintanto che in quello che viene chiesto io credo ci trovare anche della soddisfazione, del piace-re, e lo faccio anche con passione credo che non sia un problema. Nel momento in cui invece diven-tano un po’ tutti motivi che ti ho detto prima, magari, un carico eccessivo, allora in genere lo vedo come un segno che devo fare altro, devo magari uscire da un determinato contesto e modificare cer-ti aspetti del lavoro. Per quello io penso che questo è un lavoro interessante, ricco di spunti, eccete-ra, che però uno possa fare per un po’ e poi deve un po’ cambiare anche…
Perché se no poi rischia di diventare opprimente…

Sì, se no diventa o una situazione di ruggini in cui tu poi non ci metti più tanto oppure troppo oppri-mente perché il carico che ti viene chiesto magari diventa superiore rispetto a quello che tu cercavi, che ti piaceva, come una ditta che fa programmazione e in cui non c’è interrelazione e è difficile.
D: E invece, rispetto ai pazienti?

Mah, un po’ la stessa cosa, io mi pongo sempre come obiettivo per tutti i pazienti di far vivere il contesto di comunità come un fatto di relazioni significative. Cioè io penso che al di là degli obietti-vi che poi ognuno porta avanti ci tengo a che chiunque entra nella nostra struttura possa dire di aver sperimentato comunque delle buone relazioni, delle esperienze positive di averle fatte. Poi che ci stia un mese, tre mesi, tre anni… questo dipende dalla persona, da cosa vuole, da una certa libertà di scelta che comunque ci deve anche essere.
D: Quindi, se non ho capito male, comunque lasci una certa libertà alla persona.

R: Sì, la nostra metodologia di lavoro, e anche la mission di questa cooperativa non è portata… la metodologia che ci proponiamo è di stabilire relazioni delle persone e con le persone costruire un percorso di cambiamento, quindi è formato da questo tipo di percorso, anche perché può un po’ me-diare. Questo è un po’ una scelta personale, ma è anche proprio delle cooperative. Da tanto tempo anche la metodologia di lavoro punta sull’individualizzazione dei percorsi, sull’adempimento degli obiettivi, nel rispetto dell’individualità e della sua specificità, perché non toglie magari problemati-che non magari comuni, ma che mostrano che uno è fatto alla sua maniera, ha i suoi valori, il suo modo di vivere, di concepire la vita, e nella misura in cui tutti possano essere incitati cerca di porsi come persone così come siamo, peculiari perché noi li educhiamo, li curiamo…
D: E quindi questa professione, per come l’ho capito io, è abbastanza…

R: Io la vivo effettivamente, nel senso che credo che è una professione molto ricca, cioè, ti può del-le portare esperienze notevoli, ma non soltanto perché fai esperienze con altri, ma anche proprio ri-spetto a un discorso anche personale di conoscenza di sé, di acquisizione anche di capacità che ma-gari non pensavi di poter avere, quindi io consiglio anche, per quelli che fanno… lo dico un po’ nel-l’ottica della mia formazione psicologica, l’ho considerato sempre un lavoro che mi ha insegnato parecchio, parecchio, perché la condivisione di otto ore di lavoro condividendo i pasti, mangiare, li-tigare, dirsi delle cose, una chiacchierata, eccetera, ti dà una dimensione che è molto diversa dal col-loquio formale dove c’è una distanza, una tutela, sempre molto… è un lavoro che mi piace, l’inter-vento mi piacerà
D: E quindi nel ruolo che ricopri come ti ci vedi?

R: Mah, potrei dire che io ho un ruolo di coordinamento: per come sono fatta io, cerco sempre, an-che i miei colleghi, di creare una forma di dialogo, di comunicazione in cui uno può mettere in cam-po un po’ le proprie risorse. È vero che alcune volte devo assumere una parte un po’ più direttiva, derivante anche dai miei compiti, quando uno non debba essere costretta a farlo, nel senso che per fortuna noi lavoriamo poi in un gruppo di lavoro in cui ci sono anche delle relazioni positive tra di noi, per cui non ho mai avuto grosse crisi rispetto al ruolo che ho nel dire “Non mi sta”, sono con-centrata su quello che devo fare e cerco di farlo, con i miei difetti, ovviamente, enormi, perché ognuno è fatta alla sua maniera, fortunatamente.
D: Quindi comunque sei soddisfatta?

R: Ti dico, è un lavoro che faccio, ovviamente, perché mi piace. È chiaro che è un lavoro logorante, penso proprio per i motivi che ti ho detto prima, quindi è un lavoro che ha tanti aspetti negativi e il logorio ti viene nei colloqui e anche perché sicuramente è un lavoro che non puoi pensare di fare magari perché non ce ne è un altro… è un po’ svalorizzarsi secondo me: è un lavoro difficile, poco valorizzato, soprattutto ne nostro settore: ricordo, quando lavoravo in psichiatria, che il trattamento anche solo economico, era molto più alto e nel nostro settore, invece è un lavoro che fai non perché desideri arricchirti, lo devi fare proprio perché ti piace, c’è qualcosa che ti coinvolge, se no…

D: E quindi, adesso siamo un po’ alla fine, aspetti positivi, aspetti negativi, cose da valorizza-re?

R: Mah, di cose da valorizzare ce ne sarebbero tante, e qui sarebbe un discorso ampio, che com-prenderebbe, secondo me, un po’ una lettura generale, poi della società in generale dei lavori più come il nostro, dove possiamo magari essere visti, con rispetto, nell’identità comune un po’ di tutti come quelli che devono fare degli interventi così, un po’ buonistici, un po’…, ma che in realtà sono interventi professionali di un certo tipo, sono lavori pesanti e dove molto spesso c’è una valorizza-zione di quello che è la comunità, il valore che invece può avere con dei tempi adattabili alle esi-genze. I lati negativi sono, sicuramente, la pochezza del riconoscimento economico, che è veramen-te non paragonato alle risorse che tu devi mettere in campo, cioè non c’è sicuramente un bilancia-mento tra quello che tu devi un po’ mettere in campo e quello che invece ti torna un po’ indietro. La difficoltà l’ho detta… Gli aspetti positivi secondo me sono invece la possibilità che tu hai di poter crescere, di evolverti, almeno nella nostra organizzazione, poi, beneficiamo anche di una certa au-tonomia rispetto a come anche impostare l’organizzazione delle singole unità operative, quindi non è che ci vengono definite in maniera standard delle linee a cui uno deve poi uniformarsi: beneficia-mo di una certa autonomia che viene un po’ lasciata e quindi ognuno di noi da un po’ la sua fisio-nomia alle strutture e questo è anche una ricchezza un po’ in quello che si fa, insomma. Appunto il senso è quello del servizio.
Bene, sarebbe tutto, se non ci sono aspetti problematici…

Beh, ce ne sarebbero tanti, ma… sono meglio quelli positivi.


A cura di: maurizio mattioni marchetti

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