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24/09/2009
LA CULTURA VALUTATIVA NEI SERVIZI
Di Simone Feder

Sono sempre più giovani coloro che si avvicinano alle sostanze… e sempre più complesse le cause del loro inizio.

Sono sempre più giovani coloro che si avvicinano alle sostanze… e sempre più complesse le cause del loro inizio. Mi preoccupa la loro prospettiva di vita pensando ai loro racconti.
Pazzesco, devono e usano sostanze per stordirsi, per staccare la spina.
Si stordiscono perché senza questo sballo sembra che manchi in loro qualcosa di straordinario.
Lo sento da come mi raccontano le loro storie i loro sballi nelle loro indimenticabili serate.
Mi raccontava Annalisa giorni fa: “è troppo bello ubriacarsi e pippare … senza, il divertimento manca”.
E allora mi interrogo sul molto parlare dei vari esperti che ci aiutano a prevenire, aiutare e curare. Si organizzano seminari, si spendono fior fior di quattrini per convention a cui partecipano sempre le stesse persone le quali cercano di diffondere modelli e percorsi terapeutici alternativi, infatti sembra che oggi ciò che si conosce sembra essere obsoleto e quindi un modello non più “funzionante”.
Dobbiamo, spesso si dice, ripensare ai nostri servizi, alle nostre comunità, ai nostri modelli di intervento, ai nostri approcci metodologici.
Stiamo diventando esperti quasi come i pubblicitari, costruiamo idee, fantasie, progetti, si ricerca il titolo più accattivante per quel progetto, le metodologie più trendy, la collaborazione dei massimi esperti… per vendere il prodotto.
E allora si teorizza su quale sia la risposta più azzeccata e innovativa per i problemi delle persone schiave da quella sostanza.
Leggo in questi giorni della creazione di un nuovo centro, e di conseguenza l’inaugurazione di una nuova struttura, che cerca di rispondere, in modo più appropriato a quella determinata sostanza che crea disagio.
Si arriva oggi a settorializzare sempre di più il problema. Forse perché facendo così questo sembra più risolvibile o piuttosto perchè in questo modo la proposta di soluzione risulta più accattivante e appetibile per lo scoop mediatico?
Eppure è da diversi anni che nelle nostre strutture accogliamo persone che sono schiave di varie forme di dipendenza, dobbiamo quindi variare il nostro modo di risposta perché altri modelli sono più appetibili? Magari si, ma ho bisogno di capire rispetto a quali criteri.
Con la vita degli altri non si può giocare…
Non è ipotizzabile che poi il prossimo anno, questo servizio innovativo rischia di risultare vecchio anche lui?
Mi sembra una cosa molto prevedibile, troppo vecchia è la nostra filosofia di risposta e altrettanto lo è la nostra mentalità… E allora mi viene spontanea una domanda: forse non ci manca una seria cultura della valutazione nei nostri servizi?
Che significato diamo noi alla parola risultato? Chiediamoci quanti ipotizzano modelli di intervento senza minimamente stare con i giovani solo leggendo libri e analizzando grafici o ipotizzando teorie.
E allora penso ai tanti operatori che nel nascondimento danno la vita giorno dopo giorno con fatica e cercano di capire il perché di quel non cambiamento di quel giovane e si interrogano nelle loro fatiche e poi scoprono che il problema non è solo da ricercare nella dipendenza in sé, ma in un tessuto che fa da sfondo alla vita del giovane che è davvero giorno dopo giorno sempre più spaventoso.
Penso all’età di questi giovani che incontro che si abbassa sempre più. E penso alle sostanze che assumono, all’uso senza limiti che ne fanno, alla modalità di assunzione, alla noia che fa da sfondo alla loro vita e che spesso segna in loro indelebilmente un tratto di infelicità.
Molti dei giovani che vivono il dramma della dipendenza portano con sé grosse difficoltà relazionali date da varie cause: le relazioni nelle quali sono inseriti, il contesto di vita e non da ultimo le violenze subite in famiglia, gli abusi, le difficoltà dei genitori che per anni vivono in odio conflittuale e critico.
Nel processo di riabilitazione e di cura, non possiamo non tener conto inoltre della classe sociale nella quale sin dalla loro nascita hanno vissuto, del modello culturale che è stato loro trasmesso o del quale ne sono inebriati, del livello di scolarizzazione, del contesto di provenienza.
Quante variabili intervengono e che diversità a seconda di come si combinano tra di loro nella vita di ogni giovane che accogliamo.
Mi chiedo quindi come sia possibile ipotizzare, progettare e raggiungere risultati concreti senza tenere in considerazioni tutto questo e, prima di ogni altra cosa, la persona che ci troviamo davanti.
Mi ripeto spesso che valutare è una cosa essenziale ma che non basta o meglio, che è molto limitante.
Quando riconosco un cambiamento? Quando una persona smette di assumere o quando la sua vita comincia a riempirsi di qualcosa di più significativo?
Non basta applicare quel modello, pensare a quella struttura innovativa , i giovani devono sentire che quello è un loro modello e quella struttura la loro casa.
Non basta amare i giovani diceva don Bosco, loro devono sentirsi di essere amati..
E allora la terapia non può attualizzarsi se non si cerca il bene dell’altro mettendoci in discussione e lasciando all’altro le chiavi per aprire le porte del loro cambiamento. Loro devono sentire importante aprire quella porta e lo sentono se ogni loro passo è contraddistinto da una sana fatica che lo riempie di significato. Aiutarli a gustare quell’andare oltre, con i gesti amichevoli e relazionali del proprio volergli bene, risulta fondamentale ed essenziale per consolidare una nuova e diversa mentalità, nuove abitudini, nuovi comportamenti.
Pensiamo allora insieme a servizi che aiutino veramente le persone e che si prendono cura di capire che cosa sia prima di tutto essenziale nel loro processo di cambiamento.

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