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06.03.2009
la comunità un luogo per crescere
Intervento del prof. Paride Braibanti (Università di Bergamo) al corso per tirocinanti di Scienze dell’Educazione all’interno delle Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti della provincia di Bergamo.

Intervento del prof. Paride Braibanti (Università di Bergamo) al corso per tirocinanti di Scienze dell’Educazione all’interno delle Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti della provincia di Bergamo.


Oltre che essere presente a noi stessi deve essere anche comunicato, trasparente all’altro.
Il problema che secondo me si pone quando si entra nelle relazioni è che forse chiede solidità più che incertezza. Deve essere comunicata, deve essere fatta trasparire questa incertezza o deve essere fatta sparire, velata. Quando abbiamo un’incertezza che ci pare utile a noi stessi come ci comportiamo che sentimento ci provoca. La sensazione dei tirocinanti è di generale impreparazione anche se c’è la voglia di mettersi in gioco.
Le emozioni non si giocano soltanto nella relazione con se stessi, ma si giocano prevalentemente nella relazione con l’altro. L’emozione è suscitata dalla relazione, l’emozione richiede l’azione.
Sentimento di insituabilità, di non sapere come fare. È difficile continuare in un percorso che non si vede, che non si conosce. Quello che si sente sono soprattutto emozioni di impotenza, di essere di danno…allora cosa facciamo? Bisogna lasciarsi in qualche modo trasportare.
Trovare la via dell’incontro con una passione che ci corrisponde. Trovare nell’altro che aveva bisogno il rispecchiamento del proprio bisogno e da qui può partire il percorso. Con una certa attenzione all’altro, con un rispetto per l’altro quello che può essere agito all’inizio più che l’azione è la compassione trovando in questo una possibilità di leggersi reciprocamente, di trovare dei fili di compassione che non vuol dire il mettersi nello stesso posto, ma una possibilità di trovare risonanze. La via non è quella di far tacere lo sgomento, di metterlo al riparo, di provarne vergogna, ma forse quello di lasciarlo entrare in questa risonanza.
Una disponibilità alla compassione quindi di non avere paura ad aprire il cuore al sentimento dell’altro, perché nella compassione le nostre sofferenze e le sofferenze dell’altro prendono forma e quindi possono essere raccontate. Bisogna che l’altro le riconosca come proprie e le riconosca nella diversità della posizione che lo caratterizza.
L’impegno è prodotto dalla compassione. Quando l’impegno è prodotto dall’urgenza di muoversi, quando questo muoversi diventa urgente perché deve servire a nascondere il nostro turbamento allora si crea quel senso di impotenza generando azioni distruttive.
Conferma dell’ipotesi di alessitimia (assenza di parola, di lettura delle proprie emozioni) e della difficoltà della consapevolezza emozionale. Alessitimia è caratterizzata da una sottigliezza del corpo calloso. La condizione di dipendenza da sostanze è fortemente associata ad una condizione elevata di alessitimia.
Esistono due filoni di pensiero:
- le sostanze hanno un effetto specifico nella riduzione della capacità di prendere in considerazione la propria esperienza emozionale;
- una condizione di alessitimia facilita l’incontro con le sostanze. (il soggetto usa la sostanza per compensare una difficoltà nella capacità di regolare le proprie emozioni: alessitimia primaria o caratteristica).
In ogni caso è importante considerare questo che le popolazioni caratterizzate da un elevato uso di sostanze manifestano punteggi più elevati nella alessitimia manifestando una specifica difficoltà a concettualizzare le proprie vite emotive.
Non solo non si riesce a concettuelizzare, ma anche l’avvertimento emozionale è poco puntuale nei soggetti che hanno esperienze di dipendenze.
Quello che si evidenzia nell’articolo è che le persone che fanno uso di sostanze si caratterizzano fondamentalmente per questi tratti:
- rispondono molto meno agli stimoli emozionali;
- alto punteggio nell’autovalutazione della capacità di controllare gli stimoli emozionali.
C’è una differenza tra sostanze stimolanti e sostanze depressive che hanno alcuni effetti diversi.
Il cocainomane pensa di riuscire a controllare meglio le emozioni rispetto per esempio ad un alcolista.
C’è una implicazione specifica tra una condizione di dipendenza e le regolazioni emozionali.
Il trattamento deve insistere esattamente su questo punto, cioè deve insistere sulla risignificazione degli stimoli emozionali normali rispetto ad una tendenza a sottostimarne la rilevanza e a sovrastimarne una capacità di controllo.
Tornando al nostro discorso una persona in condizione di sofferenza legata alla dipendenza mostra una peculiare difficoltà ad entrare in rapporto con la propria vita emotiva e a riconoscere e a dar forma al proprio universo emozionale.
L’esperienza della sofferenza nella sua solitudine è accompagnata da una impossibilità di dare forma alla sofferenza e quindi di percepirla e di conoscerla nella sua complessità.
La compassione, cioè la possibilità di riconoscerci in emozioni che ci corrispondono è particolarmente importante.
Lo sgomento è un punto di debolezza, ma è anche un valore perché ci espone, ci scopre, mette in evidenza le condizioni di difficoltà, ci pone in quella condizione in cui diverse risonanze sono attive e indicibili.
La nostra percezione spazio-temporale è fortemente condizionata dalle emozioni.
Fare irruzione con rispetto, con attenzione proponendo le cose in modo appropriato con leggerezza e sapiente credo che sia ciò che ci può aiutare.
Non ci si può stupire se in una società, in un mondo ad una dimensione le persone cercano la trascendenza in altre dimensioni.
Restituire ai contesti la possibilità di aprire dei contesti compassionevoli con la saggezza dell’ascolto e dell’incontro e non con l’arroganza del salvatore.
Penso che sia importante anche sbagliare. Non solo ci si può rispecchiare nella sofferenza, ma anche in esperienze di un certo valore.
Emerge anche il rapporto tra la regola e la norma che sono elementi non privi di emozioni.
Le appropriatezze del linguaggio sono regolati da norme condivise che vengono assunte come un valore che si rendono riconoscibili all’interno di una visione condivisa. In questo senso le istituzioni valutano e determinano atteggiamenti e comportamenti. Questo insieme di condivisioni costituiscono quelle che gli psicologi definiscono culture locali.
Il fatto di essere in un’istituzione e di posizionarsi entro le relazioni istituzionali ha significato.
Anche la dipendenza è un’istituzione per certi aspetti che si costruisce entro trame di relazioni.
Che rapporto c’è tra le culture delle dipendenze e le culture delle comunità?
Nel lavoro iniziale sembra che prevalga un senso di non appartenenza: ci sono ospiti, ci sono educatori, ci sono tirocinanti, ma pochi, forse quasi nessuno, si sentono appartenenti all’interno di una cultura comunitaria. Le comunità nascono con il senso di attuare una rottura di una regola implicando un senso di appartenenza. Se c’è un’ideologia totalizzante non c’è speranza.
I segni di incertezza delle comunità per me possono essere dei segni di speranza che possono provocare cambiamento aprendo la possibilità del dialogo e dell’incontro.

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